MOSTRA “ARTE E FASCISMO” AL MART DI ROVERETO
C’è anche Renato Guttuso tra gli artisti in mostra a Rovereto. Il che potrebbe apparire incongruo, visto che la mostra si intitola “Arte e Fascismo” (14 aprile-1° settembre 2024), mentre Guttuso era, notoriamente, un tesserato del PCI. Ma si sa, pecunia non olet, come diceva l’imperatore romano celebre per aver dato nome ai cessi, ed è meglio fare i comunisti con i soldi (magari da spendere in profumi, per regalarne al compagno Fassino che ha tanto bisogno). Guttuso è solo un esempio dei tanti voltagabbana, volgari profittatori di regime definiti da Nino Tripodi “intellettuali sotto due bandiere”: assiduo frequentatore delle esposizioni di regime, come il Premio Bergamo ideato da Giuseppe Bottai, nel dopoguerra si scoperse, come molti altri, comunista e antifascista. Un tempismo invero provvidenziale per la sua carriera.
Tornando alla mostra, essa è stata ideata da Vittorio Sgarbi: un nome una garanzia. Infatti, il noto critico d’arte era già stato tacciato di “fascismo” in tempi non sospetti, ma adesso è uno dei bersagli preferiti della canea rossa, specie sui social. Tali sciacalli da tastiera erano già in allerta per la vicenda del Rutilio Manetti: uno dei tanti caravaggeschi minori, al centro di un giallo costruito “ad arte” - è proprio il caso di dire - da Travaglio e Ranucci. Il fatto che tutti questi sciacalli lo attacchino, è già una patente di nobiltà per Vittorio, ma chi ha letto i suoi scritti ben conosce il suo valore di critico. Un valore intellettuale che non teme Scanzi, Scurati e… capre varie.
Un elenco degli artisti principali è visibile sul sito della mostra, di cui riportiamo il link in calce, e pertanto non staremo a ripeterlo. Si potrebbero fare varie considerazioni, ma ci limitiamo a sottolineare quelli che, a nostro personale giudizio, costituiscono due aspetti di fondamentale importanza che la mostra mette nella giusta luce.
In primis, il fatto che non vi è uno stile unico “fascista” bensì una pluralità di stili, in consonanza con ciò che Fisichella definì “pluralismo sociale in regime monopartitico”: in maniera ben diversa dal totalitarismo (nazionalsocialista, e soprattutto comunista), il Regime mussoliniano non ha mai imposto norme rigide agli artisti. Il Futurismo è naturalmente presente, con artisti di tutto rispetto tra cui spiccano Thayaht e Fortunato Depero, ma - non ci stancheremo mai di ripeterlo - come l’architettura fascista non è solo razionalismo, così l’arte fascista (pittura, scultura, arti decorative) non è solo futurismo. È quindi estremamente corretto dare il giusto spazio al Novecento, la cui musa ispiratrice fu Margherita Sarfatti, e a Mario Sironi e Achille Funi, che di tale movimento artistico furono i principali esponenti.
In secondo luogo, il fatto che tra le “arti sorelle” di vasariana memoria primeggia l’architettura: pittura e scultura rivestono un luogo “ancillare”, e Mario Sironi nella teoria (“Manifesto della pittura murale”) e nella pratica ne fornisce ampia dimostrazione: la grande pittura e la grande scultura sono sempre applicate all’architettura degli edifici, nulla a che vedere con le graziose statuine ed i quadri da salotto borghese.
Il simbolo della mostra è il celebre busto bronzeo Dux di Adolfo Wildt: all’inizio del percorso espositivo se ne trova un esemplare intatto, mentre alla fine ve n’è uno sfregiato dai partigiani. Il che è molto significativo delle singolari abilità di questi liberatori, che, come dicevano Giorgio Albertazzi e Piero Buscaroli, non s’erano mai visti in giro durante la guerra: dopo il passaggio degli americani, sortivano fuori dai boschi e dalle cantine in cui erano rintanati per ammazzare civili e distruggere opere d’arte. Un tempismo perfetto, come quello di Renato Guttuso.