ROMA. FONTANA DELLE ANFORE

   
   La fontana fu inaugurata il 26 ottobre 1927 in piazza Mastro Giorgio (attuale piazza Testaccio), ma, a causa di cedimenti nel terreno verificatisi pochi anni dopo (1932), nel 1935 fu collocata in piazza dell’Emporio in asse con la testata del Ponte Sublicio, per tornare infine, in tempi recenti (2012-15), nella collocazione originaria. Le anfore che ornano la fontana rievocano l’origine del Monte Testaccio (Monte dei cocci), sorto dal cumulo di cocci di anfore rotte (in latino testae). La
fontana, interamente in travertino, consta d’una vasca circolare su di un crepidoma a due gradini, scandita da quattro vasche radiali su cui è scolpito l’emblema comunale coronato da una testa d’ariete; al centro di essa svetta un pinnacolo costituito dal cumulo di anfore, del cui significato simbolico s’è anzidetto. L’opera fu il primo grande successo dell’architetto Lombardi, che in seguito realizzerà altre fontane rionali sicché viene talvolta appellato “Giacomo Della Porta del ‘900” (D. Somigli). Il concorso del 1924 sortì esiti interessanti, ma, sfortunatamente, solo la fontana di Lombardi e quella di Selva vennero realizzate, mentre quella di Morbiducci, come vedremo, verrà modificata per divenire la fontana del Viminale.

Per saperne di più, vedi "Le Fontane di Roma nel Ventennio" nella sezione LIBRI

LIBRI (arteventennio.com)

FUTURISMO O FUTURISMI? LE DUE ANIME DEL FUTURISMO

   
   Una premessa è d’obbligo: tratteremo in questa sintetica disamina il Futurismo in pittura e nelle arti grafiche, senza alcun riferimento alle tematiche solitamente desunte dal Futurismo letterario (quello di Marinetti, in primis, ma anche di altri autori come Palazzeschi), ma riferendoci altresì esclusivamente allo stile.
  È ben noto che il Futurismo, esattamente come il Razionalismo ed altre avanguardie artistiche, rifiuta aprioristicamente il concetto stesso di “stile” ponendosi come una sorta di “assoluto”, ma nel contempo, in maniera apparentemente paradossale, ne crea uno nuovo, che porta inevitabilmente alla codificazione di norme non scritte, che vanno al di là dei “manifesti” programmatici, creando nuovi manierismi e nuove accademie.
  Se ci poniamo di fronte alle opere futuriste senza preconcetti, non potremo fare a meno di individuare delle profonde differenze: differenze che hanno portato i critici a coniare la definizione di “secondo futurismo” per l’opera di artisti come Thayaht (1893-1959) e Fortunato Depero (1892-1960).
  Difatti, un’opera di Thayaht o di Depero è molto diversa da un’opera di Boccioni o di Carrà, e ciò appare evidente. Sono due “anime” diverse, due stili addirittura agli antipodi: due differenti “futurismi” potremmo dire.
  Il “primo futurismo” è incentrato sullo studio del movimento, che, nella ricerca dell’effetto il più possibile “cinematografico”, porta a risultati di estremo “dinamismo futurista”: la Rissa in galleria (1910) e La città che sale (1910) di Umberto Boccioni (1882-1916) ne costituiscono esempi paradigmatici. Tuttavia, ex nihilo nihil, ossia nulla nasce dal nulla. Il tipo di pennellata nervosa, la stesura del colore puro in filamenti sottili, i forti contrasti tonali, tradiscono la filiazione diretta dal divisionismo ottocentesco di Gaetano Previati (1852-1920) e Giovanni Segantini (1858-99).
  È divisionista, infatti, la formazione di Boccioni, e, nonostante la programmatica rottura col passato, questo imprimatur è evidente. Su tale formazione divisionista, si innestano le ricerche sulla fotografia del movimento (Edward Muybridge) e la fascinazione derivante dalla nascente cinematografia dei Fratelli Lumiere, che tanta parte hanno avuto anche nell’opera di Carlo Ludovico (1894-1998) e Anton Giulio Bragaglia (1890-1960).
  Tutt’altro stile è quello di Depero: le campiture piatte, l’assenza di chiaroscuro, l’uso di colori puri, la linea di contorno fortemente accentuata, tradiscono ascendenze Liberty, su cui s’innesta l’influenza del nascente cubismo, ma, soprattutto, l’osservazione diretta dei macchinari industriali. Le macchine tendono ad essere squadrate: pertanto sono squadrati gli omini meccanici di Depero, più uomini-macchina che non macchine umanoidi. E il tema del “burattino futurista” verrà ripreso al cinema dal grande Totò, travestito da Pinocchio in un suo celeberrimo sketch (riproposto nel film Totò a colori, 1952).
Su questa linea di ricerca espressiva, anche artisti come Tullio Crali (1910-2000) le cui tele in cui figure e oggetti sono delineati da linee di contorno marcate sembrano prefigurare i fumetti e la pop art, specie l’opera di Roy Lichtenstein (1923-97).
  In conclusione, volendo usare una metafora di gusto marinettiano, il futurismo pittorico corre su due binari ben distinti. Il primo filone si è ben presto esaurito, poiché, come apparve chiaro fin da subito ad artisti come Sironi e Funi (che ebbero una breve “parentesi futurista”), non aveva molto senso tentare di riprodurre il movimento sulla tela, giacché il cinema ci riusciva molto meglio. Il secondo futurismo è invece vivo e vegeto, avendo trovato nel design e nella grafica pubblicitaria il proprio naturale sbocco: le bottigliette Campari di deperiana invenzione sono tuttora in produzione, a riprova dell’attualità di un’intuizione artistica senza tempo.

   Sul tema della formazione giovanile, improntata al divisionismo, di Umberto Boccioni, è stata anche allestita una mostra qualche tempo fa:  Umberto Boccioni prima del Futurismo. La grande mostra a Parma (magnanirocca.it)

ROMA. PALAZZO BARBERINI

   Il Palazzo Barberini (1626-30) è attualmente sede della Galleria Nazionale d’Arte Antica, ma nel Ventennio ospitava la sede del Circolo Ufficiali delle Forze Armate del Regno d’Italia (dal 1934).

  Nel vasto Salone del piano nobile in cui tuttora si può ammirare la volta affrescata da Pietro da Cortona (Pietro Berrettini, Cortona 1597 - Roma 1669) che vi raffigurò Il Trionfo della Divina Provvidenza sotto il Pontificato di Urbano VIII Barberini (1642), il pittore Duilio Cambellotti (Roma 1876-1960) realizzò il Fregio dei Condottieri (1936), lungo le pareti al di sotto della predetta volta. Il salone venne ribattezzato Salone dei Condottieri, per l’appunto, ma purtroppo nulla resta del fregio cambellottiano, vandalicamente distrutto dagli occupanti angloamericani, mentre si conserva ancora nelle collezioni del circolo la tela raffigurante il condottiero medievale Alberigo da Barbiano (1936), anch’essa dipinta dal Cambellotti. Il fregio era caratterizzato da un motivo ornamentale monocromo a panoplie, come riportato dalle fonti.

“L’artista [Duilio Cambellotti] compone un lungo fregio monocromo ad olio su tela, alternando gruppi simbolici di armi, scudi aquile, elmi ai nomi di grandi condottieri della storia romana ed italiana. Nel 1944, con la caduta del fascismo e l’arrivo a Roma degli alleati, i locali del circolo, completi di mobili e arredi, vengono ceduti dal ministero della Guerra all’autorità americana, come sede del rappresentante degli Stati Uniti, Alexander Kirk. L’ambasciatore Kirk chiede la rimozione del fregio di Cambellotti dal salone di Pietro da Cortona. L’ordine è eseguito dal tappezziere Gioacchino Fusari tra il 24 e il 25 agosto del 1944. Il fregio arrotolato e imballato viene riposto nei magazzini e se ne perdono le tracce. Di questa impegnativa opera sopravvive un bozzetto custodito nella Collezione Wolfson di Genova: è testimonianza dello stile neomedievale di Cambellotti (l’iconografia è affine alla vetrata Stemma del 1300 eseguita da Picchiarini nel 1911-12), che qui si fonde con il gusto per la romanità già proposto dall’artista nelle decorazioni di Castel Sant’Angelo” (Irene de Guttry-Paola Maino).

  In quegli anni, anche altri artisti diedero il loro contributo per ornare le sale del circolo: la scultrice Elsa Bonavia (Roma 1898-1989), abituale frequentatrice delle mostre sindacali fasciste, realizzò il busto bronzeo del Duca d’Aosta Emanuele Filiberto di Savoia (1931) e quello del Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, mentre è di Vittorio Grilli il busto del Quadrumviro Maresciallo d’Italia Emilio De Bono (1931).

  Il Circolo Ufficiali ha la sua sede attuale nella Villa Savorgnan di Brazzà (1936), realizzata nel giardino Barberini da Marcello Piacentini (Roma 1881-1960) e Gustavo Giovannoni (Roma 1873-1947), in uno stile neobarocco perfettamente intonato all’antistante Palazzo Barberini.

Per saperne di più:  LIBRI (arteventennio.com)

MOSTRA “ARTE E FASCISMO” AL MART DI ROVERETO

   C’è anche Renato Guttuso tra gli artisti in mostra a Rovereto. Il che potrebbe apparire incongruo, visto che la mostra si intitola “Arte e Fascismo” (14 aprile-1° settembre 2024), mentre Guttuso era, notoriamente, un tesserato del PCI. Ma si sa, pecunia non olet, come diceva l’imperatore romano celebre per aver dato nome ai cessi, ed è meglio fare i comunisti con i soldi (magari da spendere in profumi, per regalarne al compagno Fassino che ha tanto bisogno). Guttuso è solo un esempio dei tanti voltagabbana, volgari profittatori di regime definiti da Nino Tripodi “intellettuali sotto due bandiere”: assiduo frequentatore delle esposizioni di regime, come il Premio Bergamo ideato da Giuseppe Bottai, nel dopoguerra si scoperse, come molti altri, comunista e antifascista. Un tempismo invero provvidenziale per la sua carriera.

  Tornando alla mostra, essa è stata ideata da Vittorio Sgarbi: un nome una garanzia. Infatti, il noto critico d’arte era già stato tacciato di “fascismo” in tempi non sospetti, ma adesso è uno dei bersagli preferiti della canea rossa, specie sui social. Tali sciacalli da tastiera erano già in allerta per la vicenda del Rutilio Manetti: uno dei tanti caravaggeschi minori, al centro di un giallo costruito “ad arte” - è proprio il caso di dire - da Travaglio e Ranucci. Il fatto che tutti questi sciacalli lo attacchino, è già una patente di nobiltà per Vittorio, ma chi ha letto i suoi scritti ben conosce il suo valore di critico. Un valore intellettuale che non teme Scanzi, Scurati e… capre varie.

  Un elenco degli artisti principali è visibile sul sito della mostra, di cui riportiamo il link in calce, e pertanto non staremo a ripeterlo. Si potrebbero fare varie considerazioni, ma ci limitiamo a sottolineare quelli che, a nostro personale giudizio, costituiscono due aspetti di fondamentale importanza che la mostra mette nella giusta luce.

  In primis, il fatto che non vi è uno stile unico “fascista” bensì una pluralità di stili, in consonanza con ciò che Fisichella definì “pluralismo sociale in regime monopartitico”: in maniera ben diversa dal totalitarismo (nazionalsocialista, e soprattutto comunista), il Regime mussoliniano non ha mai imposto norme rigide agli artisti. Il Futurismo è naturalmente presente, con artisti di tutto rispetto tra cui spiccano Thayaht e Fortunato Depero, ma - non ci stancheremo mai di ripeterlo - come l’architettura fascista non è solo razionalismo, così l’arte fascista (pittura, scultura, arti decorative) non è solo futurismo. È quindi estremamente corretto dare il giusto spazio al Novecento, la cui musa ispiratrice fu Margherita Sarfatti, e a Mario Sironi e Achille Funi, che di tale movimento artistico furono i principali esponenti.

  In secondo luogo, il fatto che tra le “arti sorelle” di vasariana memoria primeggia l’architettura: pittura e scultura rivestono un luogo “ancillare”, e Mario Sironi nella teoria (“Manifesto della pittura murale”) e nella pratica ne fornisce ampia dimostrazione: la grande pittura e la grande scultura sono sempre applicate all’architettura degli edifici, nulla a che vedere con le graziose statuine ed i quadri da salotto borghese.

  Il simbolo della mostra è il celebre busto bronzeo Dux di Adolfo Wildt: all’inizio del percorso espositivo se ne trova un esemplare intatto, mentre alla fine ve n’è uno sfregiato dai partigiani. Il che è molto significativo delle singolari abilità di questi liberatori, che, come dicevano Giorgio Albertazzi e Piero Buscaroli, non s’erano mai visti in giro durante la guerra: dopo il passaggio degli americani, sortivano fuori dai boschi e dalle cantine in cui erano rintanati per ammazzare civili e distruggere opere d’arte. Un tempismo perfetto, come quello di Renato Guttuso.

Arte e Fascismo (mart.tn.it)


LECCE. PORTO CESAREO

   "Il comprensorio di bonifica di Porto Cesareo era sito in provincia di Lecce, sul litorale jonico. L’Opera cominciò a interessarsene sulla fine dell’anno 1921, quando acquistò dalla Congregazione di carità di Nardò due masserie, Ingegna e Colmonese: in questo territorio in maggior parte si trovavano terreni paludosi da risanare. La Congregazione aveva deciso di venderla ad un’asta pubblica, e l’Opera interessata chiese di rimandarla per poter fare un esame dei terreni, ma invano. Tuttavia l’asta andò deserta e l’Opera chiese e ottenne al Collegio centrale arbitrale l’attribuzione delle due masserie, al prezzo di lire 400.000 complessive. L’Opera entrata in possesso concesse i terreni in affitto temporaneo alla Cooperativa di Lavoro fra Combattenti e Mutilati di Nardò, che nonostante l’aiuto tecnico ed economico dell’Opera non riuscì a tenere fede agli impegni e finì con lo abbandonare i fondi, per la malaria imperante e la difficoltà dei collegamenti. In precedenza c’erano stati studi di bonifica (nel 1903 e nel 1909) a cura del R. Ufficio del Genio civile di Lecce, che aveva iniziato la bonifica col classico sistema della separazione delle acque alte dalle basse e col sollevamento meccanico di queste. Questi lavori si concretarono però solamente nello scavo dell’allacciante Omomorto-Tamari e nell’iniziare una strada di collegamento all’impianto idrovoro. Di lì a poco i lavori furono sospesi, perché questo sistema non aveva avuto buon esito in altri comprensori della provincia. Vi furono successivi piani nel 1915 e nel 1920, fino ad un altro, informato a criteri diversi, ed anche coll’approfondimento del canale allacciante. Nel frattempo si inseriva in questi progetti il comune di Nardò, che sottolineava l’esigenza di migliori comunicazioni del centro urbano con la campagna, e un consorzio per la ferrovia Taranto-Gallipoli, che reclamava la bonifica integrale di tutti i terreni attraversati e non solo di quelli paludosi. A questo punto, l’Opera che pur proprietaria aveva lasciato il campo ad altri, non vedendo risultati concreti intervenne col progetto generale della bonifica stilato dal capo dell’Ufficio tecnico Ing. Ugo Todaro. L’Opera preferì adottare un altro sistema, finalizzato al risanamento igienico delle zone litoranee, basato sullo scavo di canali e bacini a marea, e nella colmata delle restanti bassure con sabbie e con le materie di risulta degli scavi. Si previde anche la possibilità di trasformare i paduli in lagune salse, allo scopo di ottenere proficue valli da pesca. [...] L’estensione era di due ettari a quota, oltre ad un orto, presso la casa, compresa in una borgata rurale prossima a quella dei pescatori. I quotisti erano destinati poi a fornire mano d’opera per le masserie. Ammaestrata dal fallimento iniziale che aveva visto un tentativo di immediata colonizzazione a mezzo di contadini combattenti e mutilati non fu più commesso l’errore di accingersi direttamente alla completa trasformazione fondiaria prima di veder concretato il programma di risanamento idraulico. Furono scelti per la borgata il tipo edilizio a fabbricati isolati, a due piani, per due famiglie, oltre agli edifici di uso comune, scuola, chiesa, caserma carabinieri, posta".

Per saperne di più:  Architettura e scultura monumentale del Ventennio a Lecce e nel Salento | L'Arco e la Corte