ROMA. FONTANA DELLE ANFORE
Per saperne di più, vedi "Le Fontane di Roma nel Ventennio" nella sezione LIBRI
LIBRI (arteventennio.com)
Il Palazzo Barberini (1626-30) è attualmente sede della Galleria Nazionale d’Arte Antica, ma nel Ventennio ospitava la sede del Circolo Ufficiali delle Forze Armate del Regno d’Italia (dal 1934).
Nel vasto Salone del piano nobile in cui tuttora si può ammirare la volta affrescata da Pietro da Cortona (Pietro Berrettini, Cortona 1597 - Roma 1669) che vi raffigurò Il Trionfo della Divina Provvidenza sotto il Pontificato di Urbano VIII Barberini (1642), il pittore Duilio Cambellotti (Roma 1876-1960) realizzò il Fregio dei Condottieri (1936), lungo le pareti al di sotto della predetta volta. Il salone venne ribattezzato Salone dei Condottieri, per l’appunto, ma purtroppo nulla resta del fregio cambellottiano, vandalicamente distrutto dagli occupanti angloamericani, mentre si conserva ancora nelle collezioni del circolo la tela raffigurante il condottiero medievale Alberigo da Barbiano (1936), anch’essa dipinta dal Cambellotti. Il fregio era caratterizzato da un motivo ornamentale monocromo a panoplie, come riportato dalle fonti.
“L’artista [Duilio Cambellotti] compone un lungo fregio monocromo ad olio su tela, alternando gruppi simbolici di armi, scudi aquile, elmi ai nomi di grandi condottieri della storia romana ed italiana. Nel 1944, con la caduta del fascismo e l’arrivo a Roma degli alleati, i locali del circolo, completi di mobili e arredi, vengono ceduti dal ministero della Guerra all’autorità americana, come sede del rappresentante degli Stati Uniti, Alexander Kirk. L’ambasciatore Kirk chiede la rimozione del fregio di Cambellotti dal salone di Pietro da Cortona. L’ordine è eseguito dal tappezziere Gioacchino Fusari tra il 24 e il 25 agosto del 1944. Il fregio arrotolato e imballato viene riposto nei magazzini e se ne perdono le tracce. Di questa impegnativa opera sopravvive un bozzetto custodito nella Collezione Wolfson di Genova: è testimonianza dello stile neomedievale di Cambellotti (l’iconografia è affine alla vetrata Stemma del 1300 eseguita da Picchiarini nel 1911-12), che qui si fonde con il gusto per la romanità già proposto dall’artista nelle decorazioni di Castel Sant’Angelo” (Irene de Guttry-Paola Maino).
In quegli anni, anche altri artisti diedero il loro contributo per ornare le sale del circolo: la scultrice Elsa Bonavia (Roma 1898-1989), abituale frequentatrice delle mostre sindacali fasciste, realizzò il busto bronzeo del Duca d’Aosta Emanuele Filiberto di Savoia (1931) e quello del Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, mentre è di Vittorio Grilli il busto del Quadrumviro Maresciallo d’Italia Emilio De Bono (1931).
Il Circolo Ufficiali ha la sua sede attuale nella Villa Savorgnan di Brazzà (1936), realizzata nel giardino Barberini da Marcello Piacentini (Roma 1881-1960) e Gustavo Giovannoni (Roma 1873-1947), in uno stile neobarocco perfettamente intonato all’antistante Palazzo Barberini.
C’è anche Renato Guttuso tra gli artisti in mostra a Rovereto. Il che potrebbe apparire incongruo, visto che la mostra si intitola “Arte e Fascismo” (14 aprile-1° settembre 2024), mentre Guttuso era, notoriamente, un tesserato del PCI. Ma si sa, pecunia non olet, come diceva l’imperatore romano celebre per aver dato nome ai cessi, ed è meglio fare i comunisti con i soldi (magari da spendere in profumi, per regalarne al compagno Fassino che ha tanto bisogno). Guttuso è solo un esempio dei tanti voltagabbana, volgari profittatori di regime definiti da Nino Tripodi “intellettuali sotto due bandiere”: assiduo frequentatore delle esposizioni di regime, come il Premio Bergamo ideato da Giuseppe Bottai, nel dopoguerra si scoperse, come molti altri, comunista e antifascista. Un tempismo invero provvidenziale per la sua carriera.
Tornando alla mostra, essa è stata ideata da Vittorio Sgarbi: un nome una garanzia. Infatti, il noto critico d’arte era già stato tacciato di “fascismo” in tempi non sospetti, ma adesso è uno dei bersagli preferiti della canea rossa, specie sui social. Tali sciacalli da tastiera erano già in allerta per la vicenda del Rutilio Manetti: uno dei tanti caravaggeschi minori, al centro di un giallo costruito “ad arte” - è proprio il caso di dire - da Travaglio e Ranucci. Il fatto che tutti questi sciacalli lo attacchino, è già una patente di nobiltà per Vittorio, ma chi ha letto i suoi scritti ben conosce il suo valore di critico. Un valore intellettuale che non teme Scanzi, Scurati e… capre varie.
Un elenco degli artisti principali è visibile sul sito della mostra, di cui riportiamo il link in calce, e pertanto non staremo a ripeterlo. Si potrebbero fare varie considerazioni, ma ci limitiamo a sottolineare quelli che, a nostro personale giudizio, costituiscono due aspetti di fondamentale importanza che la mostra mette nella giusta luce.
In primis, il fatto che non vi è uno stile unico “fascista” bensì una pluralità di stili, in consonanza con ciò che Fisichella definì “pluralismo sociale in regime monopartitico”: in maniera ben diversa dal totalitarismo (nazionalsocialista, e soprattutto comunista), il Regime mussoliniano non ha mai imposto norme rigide agli artisti. Il Futurismo è naturalmente presente, con artisti di tutto rispetto tra cui spiccano Thayaht e Fortunato Depero, ma - non ci stancheremo mai di ripeterlo - come l’architettura fascista non è solo razionalismo, così l’arte fascista (pittura, scultura, arti decorative) non è solo futurismo. È quindi estremamente corretto dare il giusto spazio al Novecento, la cui musa ispiratrice fu Margherita Sarfatti, e a Mario Sironi e Achille Funi, che di tale movimento artistico furono i principali esponenti.
In secondo luogo, il fatto che tra le “arti sorelle” di vasariana memoria primeggia l’architettura: pittura e scultura rivestono un luogo “ancillare”, e Mario Sironi nella teoria (“Manifesto della pittura murale”) e nella pratica ne fornisce ampia dimostrazione: la grande pittura e la grande scultura sono sempre applicate all’architettura degli edifici, nulla a che vedere con le graziose statuine ed i quadri da salotto borghese.
Il simbolo della mostra è il celebre busto bronzeo Dux di Adolfo Wildt: all’inizio del percorso espositivo se ne trova un esemplare intatto, mentre alla fine ve n’è uno sfregiato dai partigiani. Il che è molto significativo delle singolari abilità di questi liberatori, che, come dicevano Giorgio Albertazzi e Piero Buscaroli, non s’erano mai visti in giro durante la guerra: dopo il passaggio degli americani, sortivano fuori dai boschi e dalle cantine in cui erano rintanati per ammazzare civili e distruggere opere d’arte. Un tempismo perfetto, come quello di Renato Guttuso.