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MILANO. HOTEL BRISTOL

   Storico albergo di Milano, l’Hotel Bristol (Ing. Gualtiero Pollidori, 1934-35) è ubicato nei pressi della Stazione Centrale (Ing. Arch. Ulisse Stacchini, 1912-27). Come solitamente accade, per motivi inerenti alla destinazione d’uso alberghiera sono sopravvenuti vari cambiamenti degli arredi interni nel corso degli anni, ma fortunatamente l’aspetto esteriore è stato preservato, sicché i magnifici prospetti dell’edificio si presentano tuttora come negli anni ’30. La tripartizione canonica basamento-elevazione-coronamento, scandita da elementi architettonici dagli aggetti ridotti (semplici fasce marcapiano, stipiti e marcadavanzale) apparenta questo edificio ai coevi esempi del Novecento milanese di autori come Muzio, De Finetti, Portaluppi e Gigiotti Zanini.

“Fra i nuovi alberghi sorti recentemente a Milano nei pressi della Stazione Centrale primeggia il Bristol Hotel, costruito su progetto dell’Ing. Gualtiero Pollidori con la collaborazione del sig. Schmid. L’edificio consta di 5 piani, 4 dei quali riservati alle camere degli ospiti, e il quinto piano, alquanto arretrato sul fronte stradale, destinato al personale di servizio, ossia complessivamente 80 persone. Nel piano seminterrato sono allocate le cucine, la guardaroba, l’impianto di riscaldamento centrale, le cantine, la dispensa ed altri locali di magazzino. Al pianterreno si trovano il grande atrio d’ingresso, il porticato e il locale di ricevimento dei clienti, la sala di scrittura, la sala di soggiorno, la sala da pranzo, il salone per le riunioni, i servizi da toeletta. Il primo, secondo, terzo e quarto piano contengono le camere per gli ospiti (con bagno e senza bagno, con bagno e salotto, ed appartamentini), tutte con telefono. Il riscaldamento, a termosifone, è sussidiato nell’atrio d’ingresso, da solai radianti. Il mobilio delle camere è stato progettato da Giannino Lagori di Milano ed eseguito dalla Ditta Colombo e Vitali, mentre per gli altri locali esso è opera di mobilieri della Brianza. I lavori, iniziati nell’ottobre del 1934 sono stati ultimati a fine ottobre del 1935, cioè in un termine di tempo relativamente breve, data l’entità della costruzione. La costruzione comporta solai misti di cotto e cemento armato, sui quali è stata stesa una gettata di calcestruzzo di circa 5 cm di spessore, e sopra di quella una soletta di cemento, sulla quale è stato applicato direttamente il pavimento di linoleum. Nei particolari delle finiture nulla è stato trascurato per ottenere la massima comodità nella sobria signorilità degli ambienti: mensole sopra i lavabi in cristallo infrangibile, porte cellulari di Tresoldi di Concorrezzo, finestre esterne del Feltrinelli” [Un nuovo albergo a Milano, in Edilizia Moderna, A. 1936].

Immagini dell'Hotel Bristol allo stato attuale sono visibili nel sito ufficiale dell'albergo:
Hotel 4 stelle in stazione centrale milano | Hotel Bristol 4 stelle Milano (hotelbristolmil.it)


ARCHITETTURA DEL VENTENNIO. IL LITTORIALE DI GIULIO ULISSE ARATA A BOLOGNA

   Dal 1925 l’Amministrazione podestarile conferì alcuni prestigiosi incarichi all’autorevole architetto Giulio Ulisse Arata (Piacenza 1881 - 1962). Anzitutto, il rifacimento e restauro del cosiddetto “quadrilatero” (1925-28) – ossia del tessuto medievale tra le vie Marchesana e Piave - , riprendendo le ipotesi di Coriolano Monti (Perugia 1815-1880), senza soluzione di continuità nel rispetto della città storica, che doveva restare medievale. All’Arata si debbono anche la ristrutturazione di Palazzo Fava (1927-29), il progetto per l’Aula Magna dell’Università (1925), il progetto per le Scuole Tecniche ai Prati di Caprara (1927) e la Torre di Maratona (1928) al Littoriale.

   Quest’ultima opera è certo la più icastica tra le opere fasciste bolognesi (e proprio per questo ha subito le più vandaliche distruzioni). Il Littoriale (1925-27) è un vasto Complesso polisportivo – esteso su di un’area di circa 125.000 mq - voluto nel 1925 dal podestà Leandro arpinati, e progettato dall’Ing. Umberto Costanzini (Modena 1897-1968), comprendente lo Stadio Comunale (avente anche funzione di campo di atletica), detto anch’esso del Littoriale,  una piscina coperta ed una scoperta, l’Istituto di Educazione Fisica, una palestra, quattro campi da tennis e gli spazi per gli allenamenti dell’Antistadio. Detto stadio (superficie coperta 76.000 mq) aveva una capienza di oltre 55.000 posti; per l’epoca erano moltissimi, ma purtroppo le esigenze speculative legate ai Mondiali del 1990 portarono ad un ampliamento che ha rovinato irrimediabilmente l’unitarietà della fabbrica. A rendere il vasto complesso ancor più monumentale, contribuiva la Torre di Maratona (1928) dell’Arch. Giulio Ulisse Arata (Piacenza 1881 - 1962), che, pur riecheggiando le antiche torri medievali cittadine, se ne distaccava per uno stile veramente romano, specie nel grande arcone che inquadrava la maestosa statua equestre del Duce di Giuseppe Graziosi (Savignano sul Panaro, Modena 1879 - Firenze 1942), vandalicamente distrutta nel 1943. Il Graziosi fu anche autore della Vittoria alata collocata inizialmente sulla sommità del pennone della torre, e nel dopoguerra spostata all’interno; nel 1945 tale pregevole statua fu oggetto di un vero e proprio “tiro al bersaglio” da parte della soldataglia anglo-americana. In effetti, l’intero complesso era ispirato a modelli desunti dall’Antica Roma, dall’Anfiteatro Flavio (dal quale lo stadio riprende la pianta ellittica) alle Terme di Caracalla. Adiacente al complesso sportivo fu costruito anche l’Ippodromo dell’Arcoveggio (1930-32), sempre dell’Ing. Umberto Costanzini, coadiuvato dall’ing. Armando Villa, che si caratterizza per l’ardita pensilina a sbalzo a copertura delle tribune. Arata disegnò anche la Fontana monumentale in memoria dei 97 operai caduti sul lavoro per realizzare la Direttissima tra il 1913 ed il 1934, ubicata dinanzi alla Stazione Ferroviaria, e malauguratamente distrutta durante i criminali bombardamenti del 1944. Tale fontana era adornata, nel basamento, di due altorilievi, rispettivamente degli scultori Boari e Drei, e venne inaugurata dal Re Vittorio Emanuele III il 22 Aprile 1934, nello stesso giorno in cui inaugurò la nuova linea ferroviaria, la Direttissima appunto.

ARCHITETTURA DEL VENTENNIO. LA GRANDE BOLOGNA.

   Nel 1927 Leandro Arpinati (Civitella di Romagna 1892-Argelato 1945), primo podestà della città felsinea, approva la Variante generale del PRG (1889), mirando alla costruzione della “Grande Bologna”, tramite l’annessione alla città di alcuni borghi limitrofi. La città moderna non doveva tuttavia stravolgere o deturpare l’antica (come purtroppo avverrà nel secondo dopoguerra), e pertanto si provvide, contestualmente alla costruzione dei nuovi edifici necessari alla vita pubblica, ai restauri dell’antico. Protagonista della stagione dei grandi restauri di Bologna fu l’arch. Edoardo Collamarini (Bologna 1864-1928), già attivo nell’anteguerra, seguendo i dettami del Boito e del Beltrami, i primi a teorizzare la necessità della conservazione delle preesistenze medievali. Nel 1922-25 compie importanti restauri nel Palazzo Comunale, detto Palazzo D’Accursio, già rifatto peraltro nel 1876 dall’architetto Antonio Zannoni (Faenza 1833-1910). Lo stesso Edoardo Collamarini conduce il restauro della Chiesa della SS. Trinità (1919-24) e realizza il Palazzo delle Province Romagnole (1928) in via Rizzoli n. 34, nonché la Nuova Ala della Pinacoteca Nazionale (1914-30). Nel medesimo periodo il noto pittore Adolfo De Carolis (Montefiore dell’Aso, Ap 1874 - Roma 1928) esegue notevoli decorazioni pittoriche (1911-28) ad affresco nelle sale del Palazzo del Podestà (1485 ca.), compiute nel 1933 dai suoi collaboratori, tra i quali spicca il fratello minore Dante De Carolis (Acquaviva Picena 1890-Bologna 1975). Nel 1926 venne compiuto l’isolamento della Porta Galliera (Bartolomeo Provaglia, 1661); nel 1935-37 venne attuato il completamento della facciata del Teatro Comunale (Antonio Bibbiena, 1763). Nel 1936 si decide la sistemazione della nuova via Roma, tramite un concorso nazionale, della cui commissione giudicatrice, presieduta dal podestà Cesare Colliva, faceva parte l’Arch. Marcello Piacentini (Roma 1881 - 1960).

  Nel Ventennio si tentò di risolvere l’annoso problema del completamento della facciata della Basilica di S. Petronio, per la quale fu bandito un primo concorso già nel lontano 1887, il secondo e ultimo nel 1933. I progettisti seguirono due differenti intenti: alcuni, tra cui Duilio Torres (Venezia 1884 - 1969), seguirono l’idea originaria del primo progettista, Antonio di Vincenzo, che avrebbe voluta una facciata in cotto, coerente con le architetture medievali bolognesi; altri, tra i quali Domenico Sandri e Guido Cirilli (Ancona 1871 – Venezia 1954), seguendo l’idea del Da Varignana, avrebbero coerentemente proseguito il rivestimento, già iniziato, dello zoccolo basamentale, estendendolo all’intera facciata. Tuttavia, a causa delle opposizioni di alcuni intellettuali e di parte della cittadinanza, non se ne fece nulla, sicché la facciata è, come è noto, a tutt’oggi incompiuta. All’interno della basilica, la Cappella dell’Immacolata venne decorata nel 1914-48 dal pittore Achille Casanova (Bologna 1861-1948).

   In epigrafe, il disegno di Guido Cirilli per la facciata del San Petronio.

MILANO. L’ARENGARIO

 
   La “Capitale morale d’Italia” di Benito Mussolini, poi “Milano da bere” di Craxi e Berlusconi, trasformata in “Zingaropoli” dall’ex brigatista rosso Pisapia, si avvia a diventare la Stalingrado dei radical-chic grazie alle dissennate politiche del sindaco Sala. Il capoluogo meneghino, nonostante i reiterati bombardamenti dagli invasori angloamericani e le speculazioni edilizie del dopoguerra, presenta fortunatamente ancora numerose testimonianze del Ventennio. Vennero infatti costruiti, nel periodo 1923-38 oltre 400.000 vani, corrispondenti al 40% dell’intero patrimonio edilizio cittadino (al 1939).
    Il punto d’arrivo della nuova architettura fascista milanese è, senza ombra di dubbio, l’Arengario (1939-56). La denominazione di “arengario” si deve al fatto che l’edificio di sinistra (osservando il complesso dalla piazza) avrebbe dovuto accogliere un balcone-tribuna per i discorsi del Duce: Mussolini, tuttavia, non se ne servì mai. Tale edificio rappresenta una sintesi di classicismo e razionalismo del tutto analoga a quella che ritroviamo all’E42 di Roma: il motivo reiterato degli archi nell’Arengario non può non rammentare, infatti, gli archi del Palazzo della Civiltà Italiana all’Eur. I padri dell’edificio sono ben quattro, tutti architetti milanesi di riconosciuta fama: Enrico Agostino Griffini (Venezia 1887 - 1952), Pier Giulio Magistretti (Milano 1891 - 1945), Giovanni Muzio (Milano 1893-1982), Piero Portaluppi (Milano 1888-1967). In effetti non è chiaro a chi spetti la paternità effettiva dell’idea progettuale, ma i documenti dell’epoca riportano le firme di tutti e quattro i progettisti. Il concorso era stato bandito nel 1937, ed erano stati presentati ben 29 progetti: prescelti per il secondo grado concorsuale, oltre a quello vincitori, furono i progetti di Marcello Canino, di Filippo Maria Beltrami e Mario Baciocchi. Il contesto rendeva quanto meno arduo il tema assegnato: doversi misurare con la Galleria Vittorio Emanuele II del Mengoni, e, soprattutto, con il simbolo per eccellenza di Milano, ossia il Duomo, non era affatto facile. Sito per l’appunto in piazza del Duomo, angolo via Guglielmo Marconi n. 1-3, nel luogo dove si trovava la cosiddetta “Manica lunga” del Palazzo Reale (demolita nel 1936 per realizzare una miglior sistemazione della piazza), l’Arengario consta di due corpi di fabbrica distinti, che intendono riecheggiare i propilei dell’antichità: difatti avrebbe dovuto essere, nell’intenzione dei progettisti, la monumentale porta urbica tra la città antica e la città nuova fascista. Il basamento dei due edifici è aperto da grandi portali rettangolari, nei cui sovrapporta spiccano cinque bassorilievi, mentre i piani superiori sono scanditi da una doppia serie di arcate a tutto sesto. Danneggiato dai bombardamenti anglo-americani, viene ultimato negli anni ’50 e adibito a sede dell’Ente Provinciale Turismo con arredi di Melchiorre Bega (Crevalcore, Bologna 1898 - Milano 1976).
  Il complesso avrebbe dovuto accogliere tra statue, opera di altrettanti artisti, mai poste in opera a causa della guerra, e rimaste allo stadio di bozzetti in gesso: Milano Fascista di Angelo Montegani (Milano 1891-1959); Milano Romana di Fausto Melotti (Rovereto 1901-Milano 1986); Milano Risorgimentale di Giacomo Maselli (Cutrofiano 1883 - Milano 1958). Il materiale di rivestimento usato è il marmo di Candoglia, materiale adoperato anche per i bassorilievi scultorei (1942), raffiguranti: Editto di Costantino, Sant’Ambrogio, Il Carroccio, I Duchi Sforza, San Carlo Borromeo, opera di Arturo Martini (Treviso 1889-Milano 1947). Altri bassorilievi furono affidati allo scultore Marino Marini (Pistoia 1901-Viareggio 1980), che tuttavia non portò mai a termine la commissione.

(foto Vincenzo Piccoli 2012)

ARCHITETTURA DEL VENTENNIO. FIRENZE.

   Se parliamo di architettura rinascimentale fiorentina, il pensiero corre immediatamente alla Cattedrale di Santa Maria del Fiore, la cui cupola fu progettata dal Brunelleschi così ampia “da coprire con sua ombra tutti e’ popoli toscani” (L. B. Alberti). Se si parla, invece, di architettura del ‘900 a Firenze, il pensiero corre inevitabilmente alla Stazione di Santa Maria Novella: anch’essa, pur non avendo un’altezza paragonabile alla cupola brunelleschiana, “fa ombra”, nel senso che oscura tutti gli altri edifici fiorentini del ‘900. Tuttavia, mentre la grandezza della cupola brunelleschiana è un dato di fatto inoppugnabile, la “grandezza” della stazione è soltanto un’impressione indotta dalla critica, che ne ha ingigantite le proporzioni fino all’inverosimile, mettendo in ombra tutto il resto. È difficile separare la realtà dall’illusione, bisogna fare come il bambino della celebre fiaba di Andersen, ovvero additare il Re nudo: questo fu l’ammonimento di Palmiro Togliatti, che come critico d’arte ebbe senz’altro più lucidità che come uomo politico. Il Sottoscritto - sebbene non ami le digressioni personali - difficilmente potrà dimenticare la profonda delusione provata nel vedere per la prima volta - all’epoca giovane studente di belle speranze - quest’opera millantata dai manuali scolastici come eccelsa: nulla vedevano i miei occhi di “monumentale”, né tanto meno di artistico o di “bello” (termine che piace ai bambini, e forse per questo fa inorridire i critici: semplicità e spontaneità appartengono ai fanciulli, falsità e menzogna agli “intellettuali” di professione); nulla di paragonabile alla Stazione Centrale di Milano, sorta di grandioso tempio ferroviario, né alle visioni futuriste di Sant’Elia, spesso caotiche ma indubbiamente ispirate da un anelito di sovrumana grandezza. La stazione è piatta: in tutti i sensi; né basta a ravvivarla quella “cascata di luce” della grande vetrata, tanto osannata dai critici manco fosse un’invenzione pari a quelle di Brunelleschi, Leonardo e Michelangelo. Se poi guardiamo il pattume architettonico realizzato da Michelucci e dai suoi allievi nella Firenze della ricostruzione post-bellica, è roba, per dirla con le parole d’un fiorentino illustre, “da far tremar le vene e i polsi” (!): aliene da qualsivoglia ambientamento rispettoso dei dettami della Tradizione architettonica, tali opere - somiglianti a malsani tuguri su palafitte di cemento - sono null’altro che estemporanee manifestazioni di un egoico solipsismo, osannato dalla critica compiacente e precursore delle follie delle odierne “archistar”. Michelucci, beniamino dei critici, ha eclissato tutti gli altri architetti fiorentini che hanno plasmato il volto della città tra le due guerre: Giovannozzi, Brizzi, Fagnoni, Ferrati, per citare soltanto i principali protagonisti. Il dibattito che negli anni ’30 aveva visto contrapposti i tradizionalisti (qualificati spregiativamente come reazionari o “passatisti” dalla critica marxista) e i “modernisti”, si risolve nel dopoguerra a vantaggio di questi ultimi: ogni opposizione viene tacitata, e le costruzioni “in stile” sono considerate alla stregua d’una bestemmia (anche per le ricostruzioni, viene bandito il principio del “com’era, dov’era”: un’unica eccezione viene ammessa per il Ponte di Santa Trinita)4. L’alluvione del 1966 rinfocola le polemiche sulla Biblioteca Centrale di Bazzani, da sempre nel mirino dei critici progressisti: ma, se certamente l’ubicazione fu infelice, essa non è da addebitarsi all’architetto “fascista” (in realtà monarchico e massone) o “passatista”, bensì alla scarsa lungimiranza della classe dirigente liberale d’epoca giolittiana. Insomma, la verità viene continuamente manipolata dai detentori della famosa “egemonia culturale”, i quali, detenendo le leve del potere intellettuale (avendo cioè in mano i principali media mainstream), riducono al silenzio qualsiasi opposizione alla loro vulgata.

Per saperne di più

LIBRI (arteventennio.com)

Architettura del Ventennio. Firenze. Guida illustrata con oltre 100 immagini d'epoca di Simone de Bartolo | Cartaceo (youcanprint.it)