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Francesco Saverio Mongelli, L’amicizia nel cinema di Pupi Avati. Solidarietà, tradimento, nostalgia, La Bottega Editoriale, Bari 2024.

Nel mondo antico, il valore dell’amicizia è tenuto in gran conto, al punto che il grande oratore romano Cicerone nel suo famoso dialogo afferma: «se qualcuno la togliesse dal mondo, sembrerebbe toglierne il sole» (Laelius de amicitia, 13, 47). Non sembra avere, questo sentimento, il medesimo valore nel mondo attuale, laddove la sempre più pervasiva “connessione” virtuale va di pari passo con la disintegrazione dei rapporti umani nella realtà.

   Il cinema rispecchia la realtà odierna, sicché pochi registi sogliono affrontare il tema dell’amicizia: Pupi Avati rappresenta, per l’appunto, una virtuosa eccezione. Il regista bolognese “fuori dalle logiche salottiere del mondo cinematografico” è sostanzialmente un narratore: fin dall’infanzia, amava raccontare storie, e questa sua vocazione l’ha sempre riportata sul grande schermo.

   “Regalo di Natale” (1986) è senza dubbio il film di Pupi Avati più noto, un successo di pubblico e di critica indissolubilmente legato al suo nome: film per l’appunto che sviscera il tema dell’amicizia virile, diversamente declinato nei rapporti tra i vari personaggi, con un memorabile “colpo di scena” finale che qui non riveliamo. Un film esemplare della produzione avatiana anche per la presenza dei suoi “attori feticcio”: il mitico Carlo Delle Piane (che aveva esordito giovanissimo nei film di Totò), Gianni Cavina e Diego Abatantuono, che proprio in questo film rivela appieno le sue doti di attore drammatico dopo il suo exploit nelle vesti del “Terrunciello” (personaggio in realtà ideato da Giorgio Porcaro, ma fu Abatantuono a renderlo un’icona anni ’80).

   Non mancano i riferimenti, in questo agile volumetto, ad altre pietre miliari della filmografia avatiana. Il sentimento dell’amicizia, difatti, lo ritroviamo in tanti altri film di Pupi: perfino in un horror divenuto col tempo un vero e proprio “cult-movie”, come “La casa dalle finestre che ridono” (1976).

   Francesco Saverio Mongelli, scrittore non certo alle prime armi ed esperto di critica cinematografica, si trova perfettamente a suo agio nel raccontarci il cinema di Pupi Avati attraverso un’originale inquadratura: il Lettore non ha che da mettersi comodo e godersi lo spettacolo.   

L’amicizia nel cinema di Pupi Avati – Francesco Saverio Mongelli

Gianvito Armenise, “Giuseppe Mario Arpino. Il Diplomatico di Ferdinando II di Borbone”, Edizioni Solfanelli, Chieti 2021.

Io non mi sento italiano, recita il verso di una famosa canzone. Chi scrive questa breve nota, al contrario, si è sempre sentito molto “italiano” e ben poco “meridionale”: notazione personale, che costituisce la necessaria premessa per sgombrare il campo da ogni sospetto di partigianeria “filo-borbonica”.

   Il Regno di Napoli, poi Regno delle Due Sicilie, è stato per lungo tempo soggetto agli strali di una critica malevola, viziata dai pregiudizi della storiografia postunitaria, mentre, al contrario, negli ultimi decenni alcuni apologeti dei Borbone hanno talvolta esagerato nel senso opposto, prestando il fianco a critiche feroci e sortendo quindi – per eterogenesi dei fini – una sorta di “effetto boomerang”, al punto che l’epiteto di “filo-borbonico” viene spesso adoperato da taluni storici – spesso divulgatori di mezza tacca, ma dal considerevole successo mediatico – in senso spregiativo, col malcelato intento di screditare voci dissenzienti rispetto alla “vulgata” imposta dalla storiografia ufficiale. Tutto ciò, va detto, non certo per amore dei Savoia, e neppure dell’Unità nazionale: si tratta, nella maggior parte dei casi, di intellettuali – o pseudointellettuali – di formazione marxista, pertanto avversi sia alla monarchia – qualunque essa fosse – sia al principio di identità nazionale. Tali intellettuali, pur vituperando il Regno e la Nazione, considerano l’affermazione di Casa Savoia un male necessario rispetto al “male assoluto” delle vecchie dinastie, parte organica del cosiddetto “Antico Regime”: un passo in avanti, dunque, verso le “magnifiche sorti e progressive” che ci hanno portato al globalismo attuale, il vasto immondezzaio che costoro spacciano per il “migliore dei mondi possibili”. Nell’ottica progressista, insomma, se la Repubblica profuma di mughetto rispetto ai miasmi delle vecchie monarchie, anche un Savoia può puzzare meno d’un Borbone.

   Tra l’altro, nel “Bel Paese”, l’antico vizio delle lotte fratricide per questa o quella fazione politica è più vivo che mai, tra fascisti e antifascisti, monarchici e repubblicani, borbonici e “savoiardi” (sebbene questi ultimi appaiano ormai fortemente ridimensionati, soprattutto a causa della condotta non proprio irreprensibile degli ultimi esponenti di Casa Savoia). Non si riesce quindi a raggiungere una valutazione storicamente equilibrata del Regno delle Due Sicilie, visto da taluni come un Eden arcadico e da talaltri come una landa arretrata, popolata da miserabili straccioni e retta da governanti corrotti alla stregua di un paese del Terzo Mondo.

   Gianvito Armenise (Bari 1973) dichiara senza mezzi termini di essere un revisionista, in quanto “la Storia è revisionista di per sé”. Un’affermazione su cui concordiamo appieno, e che ci riporta alla mente la figura di un grande storico che non ebbe mai paura di definirsi revisionista, Ernst Nolte (Witten 1923-Berlino 2016). E non per caso, visto che l’odio cieco dei giacobini che vollero estirpare con la forza le vecchie tradizioni – il cosiddetto “albero della libertà”, aldilà dell’evidente significato massonico, si poneva come simbolo della protervia giacobina in spregio alla Religione e ai valori tradizionali – è soltanto una tra le espressioni accidentali, manifestatesi nel corso dei secoli, della “sovversione eterna” o “eterna sinistra”, cioè di quell’attitudine, dapprima mentale e poi politica, a far tabula rasa del passato nel nome di un utopistico “sol dell’avvenire” che invariabilmente si rivela una distopica eclisse della ragione.

   La figura dell’Avvocato Giuseppe Mario Arpino (Modugno 1804-Napoli 1855), Diplomatico alla Corte di S. M. Ferdinando II di Borbone, viene nel saggio in questione analizzata sia sotto il profilo umano, cioè propriamente biografico (nascita, formazione, carriera, matrimonio etc.), sia sotto il profilo storico, ossia monografico: la sua attività diplomatica è, difatti, al centro di vicende storiche che costituiscono un “punto di svolta” nell’intreccio degli eventi che condurranno, in maniera inesorabile, al compimento del processo di unificazione nazionale.

   Ma fu poi davvero un processo inesorabile? Certo, molti fattori concomitanti puntavano verso l’unificazione nazionale, auspicata da vari intellettuali dell’epoca, seppur sotto varie forme: basti ricordare che, oltre alla Repubblica vagheggiata da Mazzini, vi fu anche la proposta d’una federazione di Stati indipendenti guidata da S. S. Papa Pio IX, ipotesi quest’ultima che oggi ci pare del tutto implausibile, ma è troppo facile giudicarla col senno di poi. Tuttavia, Noi non crediamo nel determinismo storico che nega la Divina Provvidenza per sostituirla con forze oscure che assoggettano l’agire dell’Uomo alla Tecnica, al Mercato o a chissà quale altro feticcio, annullandone il libero arbitrio. Forse l’Unità avrebbe potuto farsi in altro modo, forse no: è una domanda cui non è possibile fornire una risposta definitiva.

   Tornando al nostro Giuseppe Mario Arpino, egli fu il fautore di un Trattato Commerciale tra gli Stati Uniti d’America e il Regno delle Due Sicilie, un trattato della massima importanza in quanto avrebbe ridimensionato il predominio mercantile inglese. Ora, se il disegno diplomatico dell’Arpino avesse avuto seguito, non è difficile comprenderne le conseguenze: non è affatto un mistero il ruolo che ebbe l’Inghilterra nelle vicende risorgimentali, essendo particolarmente ostile al Regno borbonico; e non è certo casuale il fatto che molti uomini del Risorgimento – basti pensare a Giuseppe Mazzini – ebbero asilo a Londra. La figura di questo oscuro diplomatico – “passato al setaccio biografico”, come acutamente nota Marino Pagano nella bella Presentazione – merita quindi di essere rievocata, per il ruolo che ebbe non soltanto nella storia locale, ma anche in quella nazionale.

   Arpino morì improvvisamente (si disse per “colera o per colpo apoplettico”), poco dopo aver siglato il trattato, che, a causa della sua dipartita, restò “lettera morta”. Fu il fato avverso? Non possiamo saperlo. Forse, se fosse vissuto abbastanza, avremmo avuto un’altra Storia. Ma non possiamo sapere neanche questo.

Edizioni Solfanelli – Gianvito Armenise: Giuseppe Mario Arpino. Il diplomatico di Ferdinando II di Borbone

CARLO FUSCA, Trattando di pittura, Collana “La Scienza”, Ed. “L’Arco e la Corte”, Bari 2021.

   Il nome di Carlo Fusca (Bari 1952) è ben noto a quanti s’interessino di arte contemporanea; esponente di quella “pittura colta” (C. F. Carli) che dal Novecento arriva ai giorni nostri senza recidere il legame con la Tradizione e nel contempo rifiutando la sterile mimesi dell’Antico, non per caso compie la sua formazione come restauratore di opere d’arte e affreschi antichi: esperienze puntualmente riportate nel testo, tra le quali spiccano una tela di Gerolamo Santacroce (1503-56) allievo del Bellini, un importante ciclo di affreschi bizantini nella Chiesa di S. Maria Maggiore a Monte Sant’Angelo, una statua lignea policroma della “Madonna nera” (sec. XI-XII).

   È nel solco della Tradizione della grande pittura italiana che si pone il Fusca, e questo trattato (il gerundio del titolo è voluto, perché la ricerca di ogni vero artista non è mai un fatto concluso) ne sintetizza il proficuo percorso artistico. I precedenti illustri vanno dai trattatisti antichi (Vitruvio, Plinio il Vecchio, Eraclio, Teofilo) fino a Cennino Cennini (ca. 1370 – post 1437) ed al celeberrimo trattato leonardesco (Trattato della Pittura, redatto postumo dall’allievo prediletto Francesco Melzi), che “tenne banco” fino al tardo Ottocento con innumerevoli ristampe (difatti nessun altro trattato di pittura ebbe pari influenza nei secoli successivi). Nel ‘900 i trattati di architettura, pittura e scultura, sembrano appartenere ad un’epoca superata, e, nonostante la diffusione dell’ampia manualistica hoepliana, pare che i grandi artisti non siano più desiderosi di tramandare ai posteri i precetti della loro arte; si sprecano, al contrario, i “manifesti” delle correnti artistiche più disparate, i cui astrusi precetti teorici mettono in ombra (anzi, spesso deliberatamente ignorano) le tecniche della pittura e della scultura, tramandate dai trattati e dalle botteghe artistiche. Non è un caso che eccezioni di rilievo come “L’Arte del marmo” (1921) di Adolfo Wildt (1868-1931) e il “Piccolo trattato di tecnica pittorica” (1928) di Giorgio De Chirico (1888-1978) si debbano ad artisti profondamente legati alla Tradizione: la padronanza della tecnica serve non per imitare gli antichi, bensì per avere piena coscienza del proprio operare; sicché De Chirico poteva a buon diritto definirsi “pictor classicus” pur essendo contemporaneo.

   Non mancano nel testo le firme di eminenti specialisti del settore: dalla presentazione di Riccardo Caldura (direttore dell’Accademia di Belle Arti di Venezia) e di Saverio Simi De Burgis (storico dell’arte), ai contributi di Maristella Trombetta (docente di estetica e di storia della critica d’Arte all’Università degli Studi di Bari) e di Karmen Corak (restauratrice della Galleria dell’Accademia di Venezia).

   Il volume è inoltre impreziosito da un ampio corredo iconografico, utile per comprendere le tecniche trattate: tra le illustrazioni, spiccano alcune opere del Maestro, di cui campeggia in copertina “Andromaca” (2013), soggetto “prediletto” dall’artista (C. Strinati); a tal proposito, dobbiamo rilevare che nelle prestigiose collane della Casa Editrice “L’Arco e la Corte” sono presenti anche altri volumi le cui copertine sono impreziosite da illustrazioni del Fusca.

Trattando di pittura | L’Arco e la Corte

Architettura del Ventennio

Esamina gli stili architettonici e le loro simbologie politiche.

Iconografia e Simboli

Studia i simboli visivi e la loro diffusione nel contesto storico.